Sutherland

Sutherland

«Non vendiamo quel genere di prodotto», gli rispose la donna, seduta davanti al registratore di cassa. Sorrideva, dispiaciuta, gli occhi materni ad indicare che non c’era speranza. A Sutherland la strada asfaltata finiva dopo la chiesa, oltre il motel e la pompa di benzina. Là si arrivava solo per attraversare il Great Karoo o per ammirare le stelle, di notte. Non gli avrebbero mai risposto così a Bellville, o a Goodwood. Non ti sorridono, per comunicarti un’assenza. Una mancanza. Non lo fanno mai, in una capitale, per dispiacersi.

Il negozio, a quell’ora, era deserto.

Ventole appese al soffitto che fendevano l’aria, immobile, e ronzii dei refrigeratori a coprire il silenzio pomeridiano. Tra la merce esposta sugli scaffali, capelli di bambole, un’automobilina. Creme repellenti contro gli insetti e biscotti al cioccolato. Tutto ciò che serve, da quelle parti, per affrontare le cinque del pomeriggio, o per ricordarle. Fuori, polvere leggera come borotalco e il silenzio della strada che, oltre la chiesa, va a morire senza annunciarlo. Si fa ingoiare dalle colline ocra, la Main Road, e diviene una di loro. Smette, per sempre, di chiamarsi in quel modo, e diviene un cammino.

«Le serve altro?», gli chiese seria la donna, ma lui pensava ancora al bollitore per l’acqua e a quel modo piacevole di sentirsi negare una tazza di metallo, grande poco più di un pugno, con la resistenza elettrica che poi togli, quando scotta. A Sutherland il pomeriggio calava lento, come la sera in città. Si immaginò, là fuori, il cielo terso e i due viandanti senza casa seduti all’ingresso, i loro zigomi millenari, il taglio degli occhi semichiusi ad osservarlo mentre saliva i tre gradini. La fissò, scusandosi. No, le rispose a bassa voce. Era entrato solo per quello, confessò, ma promise che avrebbe fatto un giro tra la merce, subito. Si mosse lento, fissando l’intonaco e il pavimento, le scatole di cartone gettate in un angolo.

Lei era rimasta nella stanza, addormentata; aveva pensato a lungo al bambino, quel giorno, e non era il caso di svegliarla.

Per quel motivo, forse, lui si stava concentrando sul bollitore. La donna, con movimenti precisi, controllava gli scontrini e li riponeva nel cassetto. La sbirciò, davanti allo scaffale della pasta, fingendo di interessarsi ai prodotti esposti, senza farsi notare. Sembrava stanca, le mani lente come il suo sguardo, i capelli scuri, raccolti sulla nuca, a contrastare la parete. D’istinto, come accade ai cani, sarebbe corso là per dirle che era successo da poco, il fatto del bimbo, e che quell’emporio, con o senza il benedetto bollitore e la sua resistenza, era magnifico. Che, in quel villaggio , con il vento che si alza in silenzio, dopo pranzo, e diventa rumore verso sera, nessuno li conosceva, né si ricordava di loro, e ciò lo confortava un poco, in quella difficile situazione.

Quando stai male, di solito, ti mostra un sorriso solo chi è ignaro di te, della tua storia.

Acquistò la birra, per non uscire a mani vuote, e mentre la donna riponeva le bottiglie nel sacchetto egli prese coraggio e si mosse per parlarle. «Sono novanta Rand», disse lei, e lo fermò con lo sguardo. Si udirono solo le pale sul soffitto, in movimento, e il fremito dei congelatori. Quello era il suono che ascoltava la donna, di giorno, e con esso sembrava parlare a lungo, in silenzio, senza pretese. Il racconto del bambino mai nato, pensò lui, l’avrebbe disturbata. Non era l’ora adatta, forse. Pagò in contanti e attese il suo grazie, una parola che gli passò accanto leggera.

Si salutarono, come all’entrata, con un cenno del capo.

Fuori, l’asfalto era scuro, inviolato. Non si era ancora mosso, il vento, ed egli udì i due viandanti bisbigliare sui gradini. Lo guardarono, accennando con le labbra un lieve imbarazzo. In quel momento, pensò, lo avrebbero ascoltato. Tra uomini, si disse, nessuno avrebbe corso il rischio di restarci male. Appoggiò le birre sul pavimento, sotto la tettoia, poi indicò il cielo, dicendo «È un pomeriggio caldo, quassù», e ciascuno aprì una bottiglia, con tatto, senza fretta, come si fa con un regalo appena ricevuto. Strinsero gli occhi, bevendo, e non smisero di fissarlo, e a lui sembrarono due bambini. Così fanno, da piccoli, per non sbagliare.

Si mosse, nell’aria, un refolo improvviso, il primo sentore di un tempo a venire. Capirono, quei due, che il suo gesto nascondeva un timore, forse un pensiero duro a morire, un’ombra che ti segue sempre, e decisero di mostragli amicizia, un sorriso. «Mi raccomando, state bene», disse loro, e si incamminò lungo la Main, annusando le siepi. Davanti all’alloggio, una Bouganvillea si mosse appena, un fruscio di carta tra le dita. Lei non si sera alzata. Attese il vento sul divano, lui, al piano terra, e la immaginò così, mentre dormiva ancora.

Corrado Passi
Corrado Passi per la rubrica Narratio Memoriae


scritto da:

A quarant’anni lascia la professione medica e si trasferisce in Sudafrica, dove vive. Ha scritto la guida Cape Town (Polaris 2016), i romanzi Oltre la vita felice (Polaris, 2017), La jacaranda fiorita (Il Seme Bianco 2017), L’intensità della luce (Emersioni, 2018), Los Angeles, paradise (Emersioni 2019), Rego Park (Castelvecchi, 2021), Liturgia delle pianure (ReadAction Editore, 2023), Il sogno assassino (Castelvecchi, 2024).

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