Sawtelle Boulevard

Sawtelle Boulevard

Il marciapiede, all’angolo della Venice con Sawtelle, era sbrecciato. Due colori in contrasto, l’asfalto e il cemento dell’area parcheggio, e quella linea screpolata a segnarne il confine. L’aveva notato, Darrel, una sera di foschia umida, mentre camminava senza fretta e cercava di ricordare, una ad una, le parole appena udite in casa.

Era lei che, al telefono, troncava l’ennesima relazione durata un fine settimana e si sistemava i capelli bruni.

Condividere quel posto con Tracy non era facile. Né era semplice pensare ad altro, fingendo di non ascoltarla o di ignorare i suoi gatti e l’odore di sabbia e di urina stagnante. «Rispettate la privacy, qui non vogliamo problemi» era scritto a lettere maiuscole su un foglio, affisso sul lato interno della porta di casa, quello che guardava il tavolo della cucina e il divano. Il proprietario, un doppiatore in pensione di Culver City, aveva preteso che, oltre al contratto di affitto, entrambi firmassero anche quella clausola crocifissa dalle puntine da disegno.

Tracy era ligia alle regole. Solo per questo riuscivano ad abitare quel piccolo appartamento senza scontrarsi, senza tensione di muscoli e fiato. Si era trasferita a Los Angeles alcuni anni prima, lei. Un matrimonio sfortunato – così gli aveva raccontato una sera, di fronte alla bottiglia di vino, guardando la linea dei tetti verso la 405 e l’ombra della notte che ingoiava la città – l’aveva convinta a partire. «Quando non c’è più rispetto, e decidi di andartene», gli aveva sussurrato, il bicchiere appoggiato alle labbra, «attraversare in auto l’intera nazione ti sembra una vacanza, un gioco da ragazzi», e Darrel si era limitato ad ascoltarla in silenzio, senza pretendere di capirla, di immaginare un matrimonio fortunato, o il suo contrario.

Fino a quel giorno, in casa, si erano limitati allo scambio quotidiano dei saluti, all’elenco dei turni di pulizia. Poche parole, i nomi dei giorni, gli orari. Qualche cenno col capo.

Quella sera, l’aria era densa di confidenze e gli parve strano sentirla parlare di sé, all’improvviso, e mostrarsi più nuda delle sue gambe e dei suoi occhi scuri.

Lei attese un commento, un segno di stupore. Un movimento dello sguardo. Le avrebbe fatto piacere, pensò dopo, camminando verso la Venice, un cenno di comprensione, una parola a maledire la sfortuna. Era, quello, il suo modo per farsi conoscere, forse. Raccontare un pezzo della propria vita, un suo momento difficile, e attendere che il mondo le manifestasse interesse, curiosità. Mettersi in gioco e aspettare una reazione.

Li interruppe un miagolio e lei si alzò. Le aveva concesso di tenere in frigorifero il cibo per i suoi gatti, bocconcini in scatola al sapore di carne. Dopo quella sera, Tracy si dimostrò generosa. Accadeva che, rientrata in anticipo dall’ufficio, cucinasse la cena per entrambi. All’ingresso, dopo il lavoro, lo accoglievano la tavola apparecchiata per due e il sapore di cibo fritto, orientale; in sottofondo scorreva la musica della foresta pluviale, o il suono della volta celeste. Quei pezzi la rilassavano, gli aveva confessato, e li ascoltava nei giorni bui, prima di addormentarsi.

Senza accorgersene, Tracy spendeva l’intero stipendio e, all’improvviso, restava al verde. Se ciò accadeva prima della fine del mese, Darrel temeva che, a tavola, gli potesse capitare, tra le verdure cotte al vapore, qualche boccone di cibo per i gatti, speziato a dovere. Spendeva in vino e vestiti, Tracy, e trascorreva il sabato e la domenica in camera, insieme al fidanzato del giorno.

Ci scherzarono, un lunedì, prima di andare al lavoro, facendo colazione.

Poi, all’improvviso, lei si sentì inadeguata a quel momento. All’intera sua vita. Come se, in cucina, i suoi trent’anni si fossero seduti accanto a lei, in silenzio, e l’avessero guardata con la compostezza di chi osserva da vicino una persona sconosciuta. Come se, per vincere l’imbarazzo, quegli anni si fossero volti all’esterno, oltre la finestra, verso la strada e il fruscio cartaceo delle foglie.

Camminò verso la Venice, Darrel, quella sera, e annusò l’umido della foschia marina. C’era il deserto, per strada. Solo una donna anziana, il cane al guinzaglio, avvolto in un impermeabile rosso vivo a proteggerlo dall’autunno imminente. Una solitudine senza confini, quei due. Pensò a Tracy, in quel momento. Ai suoi sogni lunghi due giorni, alla lettiera per i gatti nel bagno. Alla sua camera, simile a un ufficio dismesso. Al letto sfatto che un mattino, dopo aver udito il rumore della sua Volkswagen allontanarsi lungo il boulevard, egli aveva intravisto oltre la porta socchiusa, contravvenendo alle regole.

Ascoltando Tracy gridare, aveva capito che stava soffrendo. «Non farti più vedere!», urlava lei al telefono, in cucina. Era a piedi nudi, sulla moquette, di fianco al frigorifero, impegnata a insultare qualcuno. Gli aveva fatto un cenno con la mano, quasi a dire «Sto piangendo, ma è tutto sotto controllo», e a lui sembrò un gesto d’affetto, rassicurante. La prova che, nonostante le parolacce, lei considerava quel problema come ordinaria amministrazione. Prima di uscire la osservò di nuovo. Lei in piedi, il gatto al suo fianco, in attesa della carne. All’altro capo del telefono, un disperato senza volto.

Arrivò all’incrocio con la Venice, Darrel, e vide la crepa nel cemento. Contro il cielo scuro, nel silenzio, risplendeva l’insegna illuminata del Fatburger. Ordinò la cena per due. Le avrebbe fatto piacere, ne era certo.

Corrado Passi
Corrado Passi per la rubrica Narratio Memoriae


scritto da:

A quarant’anni lascia la professione medica e si trasferisce in Sudafrica, dove vive. Ha scritto la guida Cape Town (Polaris 2016), i romanzi Oltre la vita felice (Polaris, 2017), La jacaranda fiorita (Il Seme Bianco 2017), L’intensità della luce (Emersioni, 2018), Los Angeles, paradise (Emersioni 2019), Rego Park (Castelvecchi, 2021), Liturgia delle pianure (ReadAction Editore, 2023), Il sogno assassino (Castelvecchi, 2024).

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