Le mani sporche

Le mani sporche

Durban era un ricordo, a Cape Town. L’oceano tiepido e le spiagge invernali, le ultime voci, la sera, di fronte alla passeggiata. Al Capo, il buio ritardava di un’ora, come la vita di Daisy, e l’oceano era ghiaccio sulle guance, e la Montagna, bruna, moriva lenta nel buio, in silenzio.

«La cicatrice scomparirà entro pochi mesi. Resterà, al tatto, un sottile filo in rilievo», le aveva detto il chirurgo, dopo il controllo, togliendosi gli occhiali.

Dopo un anno, quel segno era ancora lì, di fianco alle labbra, e l’aria fredda di Sea Point sembrava lo rilevasse ancor più, sotto la sciarpa. La città più bella del mondo, aveva letto in treno, tornando a casa, un anno prima. L’idea, quel giorno, le era sembrata un lusso impossibile, un privilegio da sognare mentre lui, a tavola, la guardava di sbieco, senza parlare, e mangiava lento sotto la lampadina. Non c’era mai stato, tra loro, il tempo del sorriso. Non sorrideva, lui, con chi gli portava a casa silenzio e malattie.

«È la Mother City», le aveva detto un’amica, a Durban. «Ci sono stata. Al Capo ti sentirai a casa, stanne certa. È lei che ti cerca. Ti chiama, ogni sera, per farsi trovare, il mattino, sotto la Montagna. Non esitare». Partì in treno, un giorno di luglio, senza nemmeno un vestito per cambiarsi, gli occhi contro il tramonto invernale. Il biglietto pagato con il conto dell’ultimo cliente, incontrato poco prima, di corsa. Nessun risparmio in tasca. Non le era consentito, a quel tempo. Se, aprendo l’armadio, lui avesse scoperto che mancava una camicetta, o un paio di pantaloni, qualche banconota, l’avrebbe rincorsa e ferita di nuovo. Si addormentò seduta. Viaggiando, di notte, appoggiò le gambe sul sedile di fronte, pronta a ritrarle al passaggio del controllore. Nessuno, sul treno, rispettava quella regola, e si sentì pulita come tutti gli altri.

La Montagna, il mattino, sorrideva a tutti loro.

Madre, la chiamavano, ma Daisy, all’inizio, non ci credeva. Non ci sono madri, tra le pietre, né figlie. Nemmeno immaginava come nascessero, la roccia e le colline. Non era mai stata altrove, e non conosceva colline diverse tra loro. Guardava la Montagna in mezzo alla città, Daisy. Lo faceva come un bambino osserva qualcuno che, ne è sicuro, di lì a poco lo chiamerà per nome e manterrà una promessa.

«Fare la cameriera è un lavoro come un altro», le scrisse l’amica. «Nessuno ti rispetterà davvero, lo sappiamo. Ma sei libera, la sera, di riposare e stare con chi ti pare, di dormire da sola. Sono molto orgogliosa di te!» le aggiunse in fondo alla lettera, in stampatello, e a Daisy parve di aver fatto la cosa giusta, di non aver commesso altri errori.

Woodstock non era male, si diceva ogni giorno. Un quartiere di persone che, come lei, camminavano senza dare troppa confidenza, in attesa, prima o poi, di un’occasione migliore. «Un tempo, signorina, qui c’era il dannato oceano», le raccontò un cliente abituale del mattino. «Sì, qui, sotto i nostri piedi. Dove sei tu, ora. Davanti a me. Si pescava dalla finestra di casa, lo sai? Poi sono arrivati quelli che decidono il da farsi, che muovono treni di grano e carbone. Il porto si è allungato verso l’acqua e l’ha mangiata. E in dieci, vent’anni, abbiamo perdute le onde. Scomparse come mio padre, mia madre».

Sorrise, Daisy, e provò a ignorare le battute sporche che l’anziano infilava tra le parole, e il suo modo immobile di guardarla a lungo. Le sorrideva, quell’uomo, e non le avrebbe mai fatto del male. Ne era certa.

«Mi credi? Acqua salata e pesci, e maree che arrivavano ai piedi del letto».

Tornò ogni giorno, quel tale. Prese il coraggio, un mattino, e le chiese che fosse quel segno sul volto, come se lo fosse procurato. «Hai vent’anni, Daisy. Ne avessi io, tanti di meno, andrei oggi stesso a Durban e lo aspetterei sotto casa, il bastardo. Lo ammazzo con queste mani, ti giuro. Lo faccio per te. Mi sporco le mani di sangue per una causa giusta, che dici?».

Rimase a Cape Town, Daisy. E Durban si spense come quel mare inghiottito dalle case, dalle voci del vecchio e di chi, ogni giorno, respirava, sulla strada, l’aria salata di Woodstock.

Ricordò a lungo il sogno di quell’uomo, le sue mani insanguinate. Forse egli l’amava, dietro i bicchieri, ogni mattino. Si desidera anche seduti al tavolo, aveva imparato Daisy, e lo si fa con gli occhi, con le mani. E non importa se, per amore, si giura di voler uccidere qualcuno. Lo si fa per quello, non per altro. Lo si capisce dal sorriso.

Corrado Passi
Corrado Passi per la rubrica Narratio Memoriae


scritto da:

A quarant’anni lascia la professione medica e si trasferisce in Sudafrica, dove vive. Ha scritto la guida Cape Town (Polaris 2016), i romanzi Oltre la vita felice (Polaris, 2017), La jacaranda fiorita (Il Seme Bianco 2017), L’intensità della luce (Emersioni, 2018), Los Angeles, paradise (Emersioni 2019), Rego Park (Castelvecchi, 2021), Liturgia delle pianure (ReadAction Editore, 2023), Il sogno assassino (Castelvecchi, 2024).

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