Il ritorno

Il ritorno

Kilburn, le avevano detto, non è un quartiere di Londra. È un sobborgo della periferia Nord Ovest, e quello aveva sempre pensato lei, per dieci anni, non appena si lasciava alle spalle la tube e, sotto il ponte della ferrovia, tra lo sterco dei piccioni, annusava l’aria umida della sera. Là, all’uscita della stazione, c’era il negozio di fiori. Verdi accesi, quasi finti, e rose bagnate di pioggia. Là l’avevano uccisa, e il fioraio, il giorno successivo, prima dell’alba, aveva disposto una piccola corona di boccioli bianchi ai piedi del muro di pietra.

Moreen, due anni dopo, apparve di fronte a Kilburn Station. Si mostrò a sé stessa, sorpresa di riconoscere quel luogo come se ci vivesse ancora. Gli altri – la madre di un bambino, intenta a sospingere il passeggino, l’ultima a scendere, in ritardo rispetto allo stravaso di persone che tornavano a casa, l’anziano con la moglie, due fidanzati avvolti dallo stesso cappotto – non potevano vederla. L’interno era illuminato, riflessi di luce opaca in una sera d’autunno che, a Londra, inizia dopo le quattro pomeridiane e, in novembre, potresti confonderla con la notte. Il fioraio, di lì a poco, avrebbe chiuso il negozio, lasciando all’interno la luce accesa, una carezza di neon tra i fiori e le piante, e l’invito, per tutti, a tornare il giorno successivo. Lì, di fronte alla stazione, la Main diventava una salita appena accennata. La ricordò bene: non lo potevi scorgere, tra le auto e le persone, il declivio. Lo percepivi a tratti, camminando, quando il respiro assumeva il ritmo del cuore e il selciato assomigliava all’ardesia dei tetti. Diveniva, dopo il tramonto, la strada principale di un villaggio da pensare altrove.

Là era caduta, soffocando un urlo in gola.

Là, senza che se ne fosse accorta, qualcuno l’aveva seguita decine di volte, forse per un anno, addirittura, studiandone ogni movimento, ogni sguardo. La mamma si chinò sul passeggino e parlò al piccolo. Tra poco, gli promise, sarebbero arrivati a casa. Il fidanzato salutò la sua donna: Moreen la vide scivolare dall’abbraccio, due forme, d’un tratto distinte, che si allontanavano senza volerlo fare davvero.

Nulla era cambiato, si disse, a quell’incrocio bagnato di acqua sporca. Non dal primo giorno in cui, arrivata da Larne, l’aveva percorsa per oltre un miglio, la Main, e si era accorta di quel pendìo senza prati né cielo, un rettifilo infinito, l’ultima fatica a piedi dopo il viaggio. Nessuno aveva dubitato di lei. Non la proprietaria della stanza, un letto e una scrivania, l’armadio alto e stretto e il bagno con l’acqua vaporizzata dal diffusore, centellinata per non spendere troppo e insufficiente, ogni sera, per lavarsi come si deve. Non il bigliettaio afghano della stazione, intento a controllare con pazienza l’umanità rigurgitata da cinque telecamere inclementi, né la cassiera del caffè d’angolo, bionda e nascosta dietro il banco di legno. Moreen, davanti a loro, abbassando le palpebre sugli occhi verdi, si era mostrata a stento, fedele alle istruzioni impartite a Derry e al suo carattere costiero – si sorride solo di fronte al mare, da quelle parti.

Se fosse rimasta, pensò di fronte alla fila di auto, qualche cosa di insolito sarebbe iniziato, per lei.

Mancava poco alla data, ricordò. Due mesi, o poco più, e le telecamere, in città, avrebbero ripreso ciò che, forse, nemmeno lei, a quel tempo, avrebbe desiderato accadesse. Sorrise, Moreen, asciugandosi le mani, una pioggia sottile, un velo che bagna senza toccarti. Quando te ne vai per sempre, ti pieghi sull’asfalto e la tua giacca ti stringe la vita e il seno come farebbe un amore. Non sei più sotto copertura, in quell’istante. Smetti di raccontare a tutti che studi al King’s College e che i tuoi capelli, lunghi e irlandesi, mancano a qualcuno, lontano.

Alzò il bavero sul collo. Quando torni, il freddo ti pizzica ancora la gola, a Londra, e, per un attimo, ti illudi di non averla mai lasciata, la vita, e di credere ancora in tutto ciò che, visto da lontano, ha diluito i suoi colori e perduto ogni significato. Se fossi ancora qui, si ripetè, molti innocenti se ne sarebbero andati al mio posto. La deflagrazione, inseguendo una sola bandiera, avrebbe condannato tutti, vincitori e vinti.

“Il movente è tuttora da accertare. Si indaga nel mondo dei pusher locali”, avevano scritto i giornali. Sotto il pilastro di pietra, ora, nessun fiore. Solo due biciclette ancorate tra loro. Moreen percorse la Main in salita. Si resta curiosi anche da morti, pensò. Ai lati, ruggine sui cancelletti e mattoni fradici di autunno. I condomìni, punteggiati di luci già accese, le apparvero identici a prima, enormi macchie scure, notturne. Il fiato non si piegò, in salita. Giunta al bivio, preferì fermarsi. Le apparve, nitido, il primo giorno, quello del suo arrivo. Una cascata di ricordi autentici, dolorosi. Aveva rallentato il passo anche allora, ignara del luogo, dei volti, di ciò che abbiamo immaginato per mesi senza conoscerlo davvero. Il dolore, da morti, è insopportabile, si disse.

Attese un bus, la corsa serale. Invisibile, si accomodò in mezzo agli altri, in silenzio. Alla fermata successiva, discesi due gradini, scomparve.

scritto da:

A quarant’anni lascia la professione medica e si trasferisce in Sudafrica, dove vive. Ha scritto la guida Cape Town (Polaris 2016), i romanzi Oltre la vita felice (Polaris, 2017), La jacaranda fiorita (Il Seme Bianco 2017), L’intensità della luce (Emersioni, 2018), Los Angeles, paradise (Emersioni 2019), Rego Park (Castelvecchi, 2021), Liturgia delle pianure (ReadAction Editore, 2023), Il sogno assassino (Castelvecchi, 2024).

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