Noi due

Noi due

L’aveva sognata per vent’anni, la Falcon.

Lo faceva appena addormentato, quando la notte ti concede di scivolare nel nulla senza farti del male, senza il bisogno di chiedere il permesso di allontanarti. La immaginava a scuola, per strada. Ovunque si trovasse. Un pensiero fisso, aveva detto l’insegnante a suo padre. «Disegna sempre quella. Nonostante le punizioni e i brutti voti. È necessaria una visita specialistica».

Così scorrevano i giorni, a Johannesburg, negli anni ’70. E nulla, nemmeno la psichiatra, un dottorato in Psicometria, i capelli biondi raccolti dietro la nuca e il volto incorniciato dagli occhiali quadrati, era riuscita a domare quell’istinto bambino che portava Adam a correre, ogni giorno, sulle autostrade che circondavano Downtown. Non lei, mentre gli poneva domande fragili come specchi. Non le sopracciglia del padre, immigrato e padano, figlio di un’Emilia che risuscitava, in casa, con le frequenti imprecazioni rivolte a lui, il figlio di mezzo, ultimo a scuola e primo ad alzarsi da tavola.

«A che stai pensando?», gli chiese la dottoressa, stringendo gli occhi fino a mostrargli due fessure. «Ricordi i tuoi sogni? Ne vuoi raccontare uno, ora?». Adam annusò l’odore di ospedale, l’aria satura di acido fenico. C’era il sole, fuori, e caldo, e le stanze, i corridoi, rilucevano di neon pulsanti.

Era all’ultimo piano del Trust Building, rispose sorridendo, le mani strette ai lati della sedia.

«No, ero proprio sul tetto». La psichiatra iniziò a prendere appunti. «Sapevo volare – nel sogno, intendo dire – e guardavo la città dall’alto. Insomma, stavo per volare via. Davvero, un salto senza farmi male». Lei continuò a scrivere parole e numeri, frecce e asterischi. «È tutto?», gli domandò senza guardarlo. Adam, d’un tratto, divenne serio. L’ambulatorio della dottoressa era al quindicesimo piano, l’aveva visto in ascensore, salendo. Non alto quanto il Trust Building, pensò: da lassù, un giorno terso, il padre gli aveva mostrato Pretoria e le colline dell’oro, il nastro delle autostrade, lo zoo. Là, pensò, si potevano guardare le nuvole, di fianco a te. Bianche e leggere, così vicine da poterle toccare. Animali e facce quasi vere. Cani, leoni, una bocca che ride.

«Poi siamo scesi», riprese Adam. Lei lo interruppe. «Scesi? Tu e qualcun altro?», incalzò fissandolo. Squillò il telefono, lei non rispose. «Tu e i tuoi genitori?», volle insistere. Adam si guardò intorno. Mollò la presa sulla sedia e incrociò le braccia, respirando a fondo. «Io e la Falcon. Con quella sono salito lassù».

Questo accadeva nel 1974, a Hillbrow, un’estate di sole e prati irrigati, le aule della scuola silenziose e le spalle piegate sui banchi, intento, ciascuno, a completare l’esame di disegno. Adam la dipinse come l’aveva sempre sognata, azzurra e cromata, il luccichio ottenuto giocando con il grigio acquoso del colore a tempera, linee sottili lungo le portiere, intorno ai fari. Dietro, sullo sfondo, le facciate dei palazzi del centro, un reticolo di finestre, lampioni e alberi in fila ordinata.

«Ossessivo-compulsivo», udì Adam dietro la porta semichiusa. La dottoressa parlava con i suoi genitori e sembrava convinta della propria diagnosi. «Bisogna intervenire ora, prima che sia troppo tardi ». Era greca, lei, e muoveva gli occhi scuri, dietro la montatura, ad accompagnare il tono serio delle proprie parole. Quando lo invitarono a entrare e lei pronunciò di nuovo “ossessivo”, il suo sguardo uscì dagli occhiali e sospinse Adam indietro, per sempre.

Il mondo, visto dai finestrini della Falcon, all’inizio gli parve diverso, più vicino. Luoghi familiari – i negozi di Garden Grove, un semaforo, il cancello della scuola – ma ai quali non aveva mai pensato sorridendo.

La prima notte non riuscì a chiudere occhio.

Scese in strada e volle dormire con lei, piegato sul sedile posteriore, annusando l’odore della finta pelle e del detergente che i concessionari di auto usate sprecano per strapparti qualche Rand in più. Si sentì galleggiare, su quelle gomme. Come in piscina: un inizio e una fine vicini, pareti che ti abbracciano senza stringerti, come una carezza leggera, e a te sembra, per un po’, di volare senza esserne capace. Fuori, il silenzio della città e, oltre il cruscotto, un enorme frangipane immobile nel buio.

«È vagabondaggio!», gli disse il poliziotto, in centrale, fissandolo dalla sedia, oltre la scrivania. «Non si dorme in auto, di notte». Se fosse accaduto una seconda volta, gli ribadì mentre compilava le carte, avrebbero sequestrato l’auto. «C’è l’arresto, per queste cose».

Ci erano rimasti male entrambi, pensarono in silenzio, all’imbocco della rampa autostradale. Non si può restare vicini per una notte, si dissero: all’improvviso arriva qualcuno, ti intima di scendere e ti controlla. Urlano domande, i poliziotti, scrivono numeri e sigle.

Vibrava, in salita, la Falcon. Un’auto di quarta mano, pensò Adam, ma azzurra come l’aveva sempre sognata, e ancora viva e accogliente. Questo contava, nella vita, a Johannesburg, si disse accelerando, mentre la gente, immersa nel traffico serale, tornava a casa pregustando il giardino e il fruscio dell’irrigatore.

«Ora basta!», lo rimproverò l’infermiera.

Erano due anni, ormai, pensò iniettandogli il neurolettico. Quel giovane paziente, dall’ospedale, non sarebbe più uscito. Fissava le auto, Adam, cercandola ancora oltre la siepe, nel parcheggio dei visitatori. «Il miglioramento è lento ma graduale», aveva confermato la dottoressa greca ai genitori, per rassicurarli, e loro le avevano creduto, di nuovo, come si fa all’inizio di un viaggio, quando un contrattempo, un presagio, ci trattiene fino a farci perdere il treno.

scritto da:

A quarant’anni lascia la professione medica e si trasferisce in Sudafrica, dove vive. Ha scritto la guida Cape Town (Polaris 2016), i romanzi Oltre la vita felice (Polaris, 2017), La jacaranda fiorita (Il Seme Bianco 2017), L’intensità della luce (Emersioni, 2018), Los Angeles, paradise (Emersioni 2019), Rego Park (Castelvecchi, 2021), Liturgia delle pianure (ReadAction Editore, 2023), Il sogno assassino (Castelvecchi, 2024).

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