Senza fare rumore

Senza fare rumore

Illuminato dallo schermo del computer, Antonio rimase immobile. Senza distogliere lo sguardo, respirando appena il silenzio notturno, osservò quella vita lieve evaporare. Non ritrovò, in ciò che stava guardando – le sue labbra di bambino sporche di cioccolato, la sedia impagliata, una maglietta a righe – alcuna persistenza nel tempo presente. Percepì, leggero, l’ineffabile sgarbo della vita, il tranello dietro l’angolo, nel buio della stanza.

Una foto, vecchia di cinquant’anni, non è per sempre.

Non ci ammorbidisce in un sorriso. Non scorre, flessuosa, tra le pieghe dei giorni a venire, quelli che la condanneranno al silenzio perpetuo. Resta com’era. Non accade mai, per chi vi è ritratto e riconosce la propria guancia e lo sguardo fiero, che quell’immagine si adegui a ciò che, ora, sei diventato.

C’erano fruscii, sull’aia. E gorgogliare di polli, come l’acqua che, finché non appare, è priva di qualsiasi voce e poi, d’un tratto, ti spaventa. E odori di alberi, e vento che ha attraversato l’erba. Avrebbero fatto saltare le radici con la polvere da sparo, disse il vecchio, e non era suo nonno, o forse sì, ma parlava con voce roca, autorevole. In collina, a quel tempo, le parole erano tutto, e le sigarette perenni fuochi accesi in bocca, nel buio, prima di dormire. «Domani lo facciamo scoppiare, quel tronco», ripetè il vecchio giocando con la cicca, e il padre di Antonio annuì senza esitare, come avrebbe fatto lui, da grande, pensando alla miccia e a quel tonfo sordo. Tutto, anche il tronco sbrecciato, e il modo di respirare dei muri, della ghiaia, aveva una voce, lassù in collina. Poggi elevati, boschi fitti e ombre, la sera, a velare i pensieri. Le finestre erano piccole, a difesa, e il temporale portava con sé l’annuncio di imprecazioni, pericoli di morte.

Sull’altro versante, un trattore ansimava ai piedi del calanco, un triangolo grigio, righe scure a rincorrersi nella terra, e l’arancio del Landini che ronzava su e giù. Lo guidava il vicino, tutto il giorno, senza sosta. Non c’erano persone perbene, da quelle parti. Sua moglie, picchiata a sangue, era scappata via e tornava, la notte, come le streghe dei racconti, a mangiare di nascosto. Una volpe silenziosa, con i denti bianchi. Così dicevano i grandi, ed erano parole severe, appoggiate sul tavolo come si fa con un bicchiere. Avrebbe voluto vederla, Antonio, dietro alla finestra, la strega. Solo per un attimo, da lontano. Poi, mai più. La cercava, salendo le scale, tra le pareti bianche, temendo che apparissero i suoi occhi.

L’indomani, ci sperava, avrebbero liberato il cane e sarebbero partiti tutti insieme. Antonio, suo padre e il vecchio che non era suo nonno.

Camminarono in salita, all’alba, con le mani fredde e l’argilla densa sotto le scarpe. Il cane, affamato, annusava ai lati, sull’erba, le tane nascoste e calde di vita. Era domenica, nessun trattore ad annoiare il silenzio tra le valli brune. Di lì a poco, in chiesa, con una giacca sulle spalle e il cappello, tutti si sarebbero salutati con gesti accennati, gli occhi stretti per non concedersi agli sguardi altrui. Camminavi anche tu, senza parlare, respirando l’umido della terra che, il mattino, rende ogni odore uguale all’altro. Là in fondo, adulto, avresti guardato il mare; là, oltre il profilo scuro, c’era il silenzio dell’acqua.

Un buco intorno alle radici, la miccia srotolata e, di nuovo, silenzio e profumo di terra smossa.

Rimasero là, suo padre e il cane, per accendere quel filo di corda. Si comportò, il vecchio, come se fosse stato suo nonno, e lo portò lontano, un dosso dal quale si poteva osservare la scena senza spaventarsi troppo. Camminarono piano, allontanandosi, ed egli ascoltò la sua voce che masticava la sigaretta, e l’eco delle sue scarpe pesanti sul terriccio. Non c’era il sole, ma luce che filtra dalle nuvole e torna indietro. Era il mattino dei boschi, del vento che arriva dal mare. Il nonno, o chi gli assomigliava, lanciò un fischio, una fucilata che rimbalzò da un albero all’altro, come il lampo. Attesero, senza respirare.

Poi si udì un tonfo sordo, un sacco che cade a terra senza che si rompa qualcosa.

Tornò da solo, suo padre. Aveva il passo lento, le mani in tasca. Il cane era rimasto là per sempre, disse a voce bassa. Forse un colpo al cuore, o la paura di morire. Quel tronco, bestemmiarono, da troppi anni portava sciagura: sul ciglio della strada, con le braccia mozzate, attendeva che qualcuno passasse per mostrargli i denti, come la strega affamata. Era lei, sorrise il vecchio. «Certuni li devi ammazzare. Come le piante. E dimenticarli in fretta», sussurrò. L’aia, prima del temporale, era in silenzio, una fotografia. «Non si lascia mai la radice. Avvelena la terra, tutto intorno», disse a sua moglie. Aveva i baffi, lui. E un po’ di barba anche lei. In collina succede: il sole ti brucia e una nonna si ripara così, sulle guance. Quel giorno non andarono in chiesa a stringersi al freddo, a fare cenni di saluto. Niente giacca, né scarpe buone.

In casa, solo occhiate in silenzio e il riflesso di un coltello, il coniglio ancora caldo appeso in cantina. Fuori, una pioggia minuta, una carezza. Antonio la immaginò lavare, lassù, il tronco divelto e il cane. Poi venne la notte e, con essa, un sonno muto, infantile.

Corrado Passi
Corrado Passi per la rubrica Narratio Memoriae


scritto da:

A quarant’anni lascia la professione medica e si trasferisce in Sudafrica, dove vive. Ha scritto la guida Cape Town (Polaris 2016), i romanzi Oltre la vita felice (Polaris, 2017), La jacaranda fiorita (Il Seme Bianco 2017), L’intensità della luce (Emersioni, 2018), Los Angeles, paradise (Emersioni 2019), Rego Park (Castelvecchi, 2021), Liturgia delle pianure (ReadAction Editore, 2023), Il sogno assassino (Castelvecchi, 2024).

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